venerdì 1 febbraio 2008

Quelle riforme affossate da Prodi e Veltroni


In politica, come a ruba mazzo, conta la tempistica, perché vince chi mette per primo sul tavolo la carta giusta. Ed eccole qui, in rapida successione, le due scene che meritano di essere ripassate in moviola da chi vuol conoscere in anticipo quale sarà con ogni probabilità l’epilogo dell’esplorazione che ora sta conducendo Franco Marini. Palazzo del Quirinale: il presidente del Senato, preceduto dallo scampanellio delle grandi occasioni, annuncia di aver accettato l’incarico, sia pur “gravoso”, di verificare l’esistenza, in Parlamento, di una maggioranza che voglia insieme con lui fare la riforma elettorale per poi dare subito uno stop alla legislatura. Ad aprile o a giugno non si sa. Ma ecco che, mentre Marini ancora parla solenne, arriva in cuffia ai telecronisti la decisione, in simultanea ed altrettanto solenne, di tutti i senatori dell’Udc di casa Casini di impiombare definitivamente questo tentativo ancor prima che esso veda la luce.

Il passaparola supera, in un lampo, il muro dei corazzieri, ma è troppo tardi perché come può ormai un Marini già ufficialmente incaricato tirarsi indietro? Del resto, chi fa opera di scavo per conoscere alcuni dei motivi che hanno portato a questo ennesimo, ma quasi certamente inconcludente, giro di tavolo, scopre magari cose che certe cronache di palazzo si guardano bene oggi dal mettere in piazza. E non c’entra nemmeno tanto il Capo dello Stato il quale, per le responsabilità che la Costituzione gli assegna, non poteva forse agire diversamente. I motivi sono altri - due soprattutto - e si intrecciano strettamente con la strategia che Walter Veltroni sta da tempo cercando di attuare e che lo scioglimento immediato delle Camere rischia ora di far saltare. Il primo è che, senza una nuova legge elettorale come quella che aveva all’inizio cominciato a tessere con Silvio Berlusconi, la sua creatura, cioè il Partito democratico, rischia non solo di non avere una sufficiente spinta propulsiva ma di perdere anche, costretto di nuovo ad affondare nei miasmi delle vecchie alleanze con l’estrema sinistra,gran parte di quella autonomia (“vado da solo”) che avrebbe dovuto essere il vero appeal elettorale della nuova formazione politica. E il fatto che almeno un terzo del Pd si sfreghi oggi le mani per questo suo insuccesso, certo non lo rincuora. Ma il secondo motivo vale quanto il primo perché Veltroni non digerisce nemmeno che a condurre la danza elettorale sia, da palazzo Chigi come presidente del Consiglio di un Governo dimissionario ma sempre in carica per gli affari correnti, proprio un personaggio come Romano Prodi, che è la causa prima del tracollo di consensi subito dallo schieramento di tutto il centrosinistra nell’arco dell’ultimo anno. Difatti, è inutile raccontarsi storie: i due ormai si odiano e per giustificabili motivi. Prodi odia Veltroni perché lo considera il vero responsabile dello sfracello della sua coalizione. E Veltroni lo ricambia della stessa moneta perché, a sua volta, lo giudica responsabile di una politica di Governo che ha fatto fuggire a gambe levate una larga fetta di elettori.

E, in più, dovrebbe fare la campagna elettorale con l’immaginetta prodiana alle spalle? Questo sì che è davvero troppo. Per Veltroni. Ma, visto che questo è lo scenario, c’è o no ancora un barlume di speranza di riformare qualcosina prima del voto? Pare proprio di no. E un diverso ragionamento rischia ormai di sciogliersi in un mare di se. Se Veltroni avesse preso il coraggio a quattro mani e avesse battuto i pugni sul tavolo al momento opportuno, quando, ad esempio, pareva essere arrivata quasi sulla pista di decollo l’intesa bipartisan su un certo progetto di riforma, allora sì che avrebbe avuto qualche chance in più. Ma, ricattato in ogni modo da Prodi, è stato costretto a fermarsi sulla soglia e i suoi tanti avversari non aspettavano proprio altro per spingerlo ancora più indietro. E se Prodi avesse abbandonato il campo un anno fa, tirando le fila della sua devastante politica, allora sì che si sarebbe messo in moto un confronto, in Parlamento, sulla riforma elettorale e forse anche su qualcos’altro. E se poi, come aveva proposto Berlusconi subito dopo questo, per la sinistra, assai claudicante risultato elettorale, Prodi avesse accettato di confrontarsi su un’ipotesi, più che motivata dai numeri, di grande coalizione... Ma Prodi questo è, e lo sa pure Veltroni. Il guaio per la sinistra è che lo sanno anche gli elettori.

Vittorio Bruno (Giornale della Libertà)

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